Cervello in Tilt

Relazioni Complicate

18 Maggio 2018

Relazioni Complicate

Intolleranza

di Stefano Michelini

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Una delle catene più difficili da spezzare, per guadagnare leggerezza di vita è la capacità di ridurre la quota di intolleranza che è in noi.

 

L’intolleranza non va confusa con la solidità delle proprie prospettive di vita.  Una certezza interiore non può essere scalfita dalla superficialità altrui. Intolleranza giustificata in assoluto e assolta da Dio e da Einstein in  confessione congiunta.

 

Nel vocabolario dei Presunti Sani, l’Intolleranza è quella caratteristica, che in modo popolare viene chiamata “suscettibilità”, con l’aggravante di essere sistematicamente collegata a segni zodiacali. Non relazionata al cervello che abbiamo, ma alle stelle del cosmo. Bellissimo concetto: poetico e mediatico, ma non ne parlate con chi, come me, viaggia continuamente nella mente altrui. 

 

In due parole si tratta di essere urtati per poco; un momento bello, che si trasforma improvvisamente in un disagio penalizzante la qualità del tempo, se ci riferisce a quel momento specifico; penalizzante la qualità della vita se l’intolleranza è un anello della catena, che non riusciamo a spezzare in nessun modo.

 

L’intolleranza del Presunto Sano, intesa naturalmente come una condanna a vita caratteriale, ha radici molto semplici e facili da risolvere, quando ne abbiamo risolto gli incroci da battaglia navale, che avevamo descritto nella metafora del post sull’invidia. 

 

Per chiarire, prendiamo il mio caso, Stefano Michelini, me medesimo: io sono intollerante all’approssimazione di qualsiasi genere e grado; alla comunicazione faticosa, che per arrivare a capirsi ci vuole un mese e alla incapacità altrui di fare distinzioni e bilanci che possono cambiare una vita. Quindi non proprio cose da poco.

 

E’ necessario, come prima accennato, precisare quanto interferisce l’intolleranza su di noi:

 

Nel mio caso, l’intolleranza sporca solo momenti della mia vita; momenti, che possono durare al massimo un giorno. Dopo un giorno, comincio a scomporre il fatto, arrivo al nucleo e riprendo la mia vita tipica, con la testa tra le nuvole. Imperturbabile.

 

In altri casi, rovina la propria vita e di chi sta nel raggio dei nostri tre metri di intimità.

 

Nel mio caso, l’intolleranza ha quindi tre radici diverse:

 

  1. INTOLLERANZA ALL’APPROSSIMAZIONE. L’approssimazione è una cosa fantastica, un vero dono di Dio o di un Presunto Dio. Dire sciocchezze senza una logica stringente, che ti fanno ridere o che fanno ridere, è stupendo. Il mio ideale di vita. Ci sono sfumature di arguzia, ironia, intelligenza, gioco, fanciullezza, che nessun pittore saprebbe riprodurre. Il problema, per me, è che ci sono persone che dell’approssimazione ne fanno uno stile di vita: si va da quelli che ti dicono che sono a dieci minuti da te e sanno bene di essere ad almeno trenta, a quelli che, facendo un mestiere non medico si lasciano andare a diagnosi, terapie carpite dalla signora accanto alla cassa della Cooperativa dove fai la spesa o da una Farmacista, quella giovane, tanto brava. Ce ne sono una marea, ve lo assicuro, e se citassi tutte le combinazioni che ascolto, Cervello in Tilt andrebbe in Tilt per sempre, compresi tutti quelli che ci lavorano. Tra questi approssimativi professionali, ci sono quelli che, infilati dal mio sguardo da Dexter smettono subito perché hanno capito che ho capito ed altri che continuano imperterriti e mi rovinano un momento di durata variabile perché mi fanno pena. Di conseguenza mi faccio pena anche io, che mi sono esposto ad ascoltare una conversazione basata su presunte verità, che avevo percepito al primo secondo di conversazione. Scrivere di loro era necessario per contestualizzare, ma è della mia intolleranza o di chi ha questo tipo di intolleranza che Cervello in Tilt deve spiegare. La radice di questo tipo di Intolleranza all’approssimazione fa parte dell’ossessività. É un sintomo ossessivo piccolo piccolo, che però ti disturba come lo stridere delle unghie sulla lavagna. Importante è essere consapevoli che siamo noi ad essere così cagionevoli e che non sono gli altri ad essere dalla parte sbagliata. Per abbattere questa quota di disagio che si crea in noi, di fronte all’approssimazione, può anche essere necessario un farmaco, se il disagio invalida la qualità della vita ogni giorno e determina decisioni relazionali o lavorative. Se, come nel mio caso, altera solo momenti, la soluzione elementare è cercare di farsi trovare in condizioni psicofisiche ottimali: non avere fame e sete, non essere stanchi fisicamente e mentalmente, stare in silenzio se Dybala ha appena sbagliato un rigore: in poche parole, se non sei in acque calme “stattene zitto e buono”. Il problema di essere solo saltuariamente intolleranti non è comunque da trascurare perché, accumulando momenti su momenti, sciupiamo un clima, anche solo neutro, a noi stessi e anche a chi è con noi. E non va bene, perché la soluzione è proprio semplice semplice, basta un minimo di attenzione. Paradossalmente non dobbiamo noi essere approssimativi, quando si interagisce con gli altri: dobbiamo solo capire, se siamo nelle condizioni giuste per assorbire un’eventuale caterva di cazzate, senza via di fuga. 
     
  2. INTOLLERANZA ALLA COMUNICAZIONE FATICOSA. Qui non ho scampo. Se in due scambi di conversazione, assisto ad un eccesso di precisazione (concetto opposto al precedente), o ad una conversazione che va di lato come camminano i granchi, vado al manicomio. Sento una voglia di fuggire che non mi prenderebbe nemmeno Bolt. Poiché fuggire senza un apparente motivo da una conversazione è quasi sempre  giudicato sconveniente nella palude dei rapporti sociali, spesso mi ciuccio la mia buona dose di Intolleranza, fino a quando si realizzano due situazioni chiave: l’interlocutore smette spontaneamente di parlare perché “deve andare ad un appuntamento e si è fatto tardi” o quando è passato un periodo di  tempo congruo, che rende meno sconveniente fuggire. Questo tipo di intolleranza è più raro rispetto al precedente e anche più difficile da risolvere. Perché quando ci sei dentro hai solo due armi per uscirne con il minimo danno possibile: avere la forza di essere antipatico e dire subito “scusa devo andare” o una confidenza tale con l’interlocutore che le sue parole si vaporizzano prima di giungere al tuo cervello; in questo caso, l’interlocutore si accorge dal linguaggio metaverbale che tu sei su un altro pianeta e smette, a meno che proprio non sia un professionista del nulla. Ma tu sei al sicuro, conosce come sei fatto e non si offende. Questo tipo di intolleranza alla comunicazione faticosa ha un’origine bio-etica, che ha a che fare con il valore che dai al Tempo Vitale. Tutti diciamo che il tempo è il valore più prezioso che abbiamo e che tutto si recupera tranne il tempo, ma nella pratica esistenziale, soltanto pochi intolleranti come me, sono coerenti al concetto. La base biologica è di tipo panico, come spiegato nel contributo sulla Paura, perché solo  chi ha consapevolezza vera della vita o il timore esagerato di morire, vive il tempo come unico, veloce, deteriorabile. Per cui sprecarne diventa da fastidioso a molto doloroso. Bisogna stare molto attenti e in questi casi, anche se a volte esagero, voglio bene alla mia Intolleranza al suo spreco. Sono il Greenpeace del Tempo.
     
  3. INTOLLERANZA AI BILANCI ESISTENZIALI. Questo tipo di Intolleranza deriva dall’Intolleranza all’Approssimazione ed è quindi di origine prettamente ossessiva. Ci si attende sempre giudizi corretti nel dare e nell’avere, come linee perfette che devono combaciare, ma a me non accade mai. A questo tipo di Intolleranza, la più dolorosa di tutte, perché non distingue quanto io possa essere stato determinante nella vita di una persona, dai difetti che tutti abbiamo, non riesco a porre rimedio. Nessuno riconosce il merito o il demerito in modo corretto in base al volume di vita mosso e questo mi fa incazzare a morte. Piano, piano., ma incazzato nero. Nessuno riconosce l’impegno in modo congruo. Nessuno ne assapora il valore. E questo, nel mio caso, solo per essere easy going nel donarmi. E, PER CARITÁ, non provate a ricordare quello che è stato fatto perché, sempre usando il vocabolario dei Presunti Sani, viene fuori la frase storica “Allora tu mi rinfacci”. Dentro di me, psichiatra educato e pacato, scatta l’ignoranza e penso subito “Ma va affanculo”, un coro muto di “Va affanculo”, che finisce per avvelenare il sangue solo a me. Seguono poi valanghe di considerazioni a mitraglia, del tipo “Chi te l’ha fatto fare”, “Ma con chi cazzo sei stato fino ad ora”, “Ma di che cazzo stiamo a parlare”, anche se non stiamo parlando affatto. 

 

L’aspetto neurobiologico, in questo tipo di intolleranza è puramente cognitivo. Stiamo parlando di me, quindi sono certo di quello che dico: vivo fasi di assoluta incapacità di intendere e di volere, come rispondere “sì sì sposiamoci”, mentre guardo, rapito, il concerto di David Gilmour a Pompei. 

 

La presunzione megalomanica della mia intelligenza mi porta a questo tipo di valutazioni sbagliate, alla superficialità delle scelte relazionali, a non rispettare la giusta distanza da chi non la pensa come me e vive secondo i propri legittimi principi.

 

“Va bene,  va bene così”.

 

Regna ormai il silenzio. Il sipario è calato da ore e la gente è già a casa da tempo. É ora anche per me, Intollerante a Denominazione di Origine Controllata.