Psico Art

In officina rientrai la settimana successiva.
Meno male che non c’era troppo lavoro da svolgere così potevo curarmi l’infiammazione al polso.
Figure storiche se n’erano andate. Chi in pensione, chi, purtroppo, al Campo Santo.
Lo stalker ufficiale decise di concentrarsi su di me.
Non faceva assolutamente nulla di compromettente: mi chiamava.
Coll’epiteto che stabiliva di volta in volta.
Rispondevo.
Chiamandolo anch’io, con uno dei suoi innumerevoli soprannomi, di cui andava fiero.
Dopo un tempo lunghissimo, concentrato sulle attività che svolgevo, entusiasta addirittura del progresso che avevo compiuto dall’inizio fino ad allora, andai davanti a ‘Pappagone’ e gli annunciai che avevo da dirgli qualcosa.
Dispiegò l’avambraccio per descrivere il semicerchio sul pavimento.
“Se t’avvicini, ti tiro!”
“Non ti preoccupare! Non voglio fare a colpi: non ne sono capace.Però m’hai rotto le palle! Non ti dò più confidenza!”
Mi girai ed andai negli spogliatoi.
Mi cambiai e me ne andai.
Quella sera, dopo cena, feci visita al mio capo. Non il mio superiore diretto, ma il Presidente; la massima carica; colui che mi aveva dato l’opportunità di lavorare lì, una quindicina d’anni prima. Gli raccontai quello che era successo, concludendo:
“… non posso essere altro che riconoscente, verso di te. Riesco a sopportare tutto. Ma devo respirare. Ossigeno. Non il gas di scarico del muletto; con il filtro ad acqua, che nessuno mai svuota e riempie, troppo frequentemente…
lo spacco a martellate, io stesso…”
Dopo una settimana ritornai in officina.
Grezman era alla guida di un carrello elevatore elettrico.
Più grosso. Meno maneggevole. Ma non a gasolio.