Pet Therapy

Circa un anno fa. Amicizia con una ragazza qualche anno più grande di me, con la quale condivisi il dolore per la morte di un cane che subì innumerevoli maltrattamenti e che fu lasciato morire di stenti.
Lo trovai io stessa, fu terribile. Pubblicai sui social il mio disappunto rispetto a casi come questo e diffusi ad alta voce il mio sdegno, appellandomi alla coscienza delle persone e cercando in un certo senso di sensibilizzarle.
Fu in questa triste occasione che conobbi lei, mi scrisse non appena lesse il post e nacque subito un’amicizia, un’intesa. Pensai che la morte di quel povero cane non fosse stata vana e che in qualche modo se ne fosse andato per una ragione precisa e che io fossi stata ripagata per ciò che di più terribile avevo visto in vita mia, con questa bella e umile nuova amica, Francesca.
Da subito le nostre conversazioni risultarono piacevoli e profonde, mi sembrava ci conoscessimo da una vita. Ci raccontammo un po’ di noi, fino a quando lei mi rese partecipe di una cosa che la addolorava profondamente. La malattia della sua mamma. L’Alzheimer.
Me la descrisse come una malattia subdola. Devastante. Irreversibile e mi parlò di quanto fosse difficile vedere la propria madre regredire in quel modo. Vedere come questa bestia si accanisse con la sua memoria e con le sue capacità cognitive.
A questo proposito, mi spiegò, quanto fosse stata importante e quanto lo sia tutt’ora, la presenza di Olly, la loro cagnetta, con cui la mamma, in tutto il decorso della malattia, ha cercato un contatto fisico. Olly per lei, era come un calmante, rallentava le sue gestualità ossessive fino a farle cessare, le riduceva lo stato ansioso, mantenendo in vita le sue capacità motorie, magari con il semplice gesto di tirarle la pallina da tennis e farsela riportare.
Francesca mi descrisse la madre come una prigioniera di un corpo che però non le rispondeva più e di una mente che scambia il passato per il presente, rimarcandomi però, che gli affetti da demenza, come la sua mamma, l’amore lo sentono, come sentono la paura, l’ansia, la frustrazione e l’inadeguatezza.
Noi, familiari, operatori sanitari, medici, amici o vicini di casa dobbiamo far si, che queste persone, recuperino, anche se per un brevissimo lasso di tempo, quel minimo di integrità che purtroppo, questa malattia, che gli provoca un’inevitabile cecità mentale, gli ha rubato.
Possiamo fare molto di più e meglio