Cervello in Tilt

Nuova Adolescenza

22 Aprile 2018

Nuova Adolescenza

Forse per me l’amore è la digestione degli spaghetti al pomodoro nel giardino della scuola

di Insider Anonima

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Sono apparentemente una semplice ventenne, vivo a Firenze e suono il pianoforte. 

 

La cosa che mi distingue da tutti i miei coetanei è una mancanza che ho riscontrato all'età di sei anni. 

 

Scientificamente parlando si tratta dell'alessitimìa: un disturbo che impedisce di distinguere, e quindi di esprimere, le proprie emozioni, ma anche quelle altrui. 

 

Per tutta la mia vita non sono mai stata in grado di capire quando qualcuno fosse arrabbiato con me, quindi dove sbagliavo nelle relazioni, e nemmeno in grado di capire quando stessi veramente bene. 

 

Mi piacerebbe spiegarvi come funziona, come ci si trova nella vita ad essere così, ma non ne sono capace. 

 

L'altro giorno, quando parlavo con la mia amica Laura (se siamo amiche però non l'ho ancora capito), ho notato che per descriverle una ragazza che conosco, ho dovuto descrivere il luogo in cui mi trovavo quando ci siamo viste per la prima volta. 

 

L'unica cosa che riesce ad aiutarmi con il mio problema è il ricordo dei posti in cui mi trovavo quando ho notato determinate cose: una particolarità di una persona che magari ho associato al tramonto, o ad un giardino.

 

 

Micol me la ricordo, perché ormai sono undici anni che prendo sempre il solito treno che mi porta da Firenze Rifredi a Santa Maria Novella per le lezioni di piano. 

 

Non so cosa ci faccia lei sul treno a quell'ora, non credo mi sia mai interessato saperlo, però corre sempre quando arriva alla stazione. Un giorno erano le 18:38, e avevamo il treno alle 18:57 sul binario 1. 

 

Mi ricordo che stavo guardando la Luna visibile già in cielo per il cambiamento di orario del tramonto, e si era creato uno scenario suggestivo mentre spuntava tra i rami degli alberi. 

 

Ad un certo punto mi sono ritrovata Micol addosso. 

 

Dopo poco la caduta lei si è rialzata ed aveva il mascara colato, tutti i libri sparsi tra erba e sassi e un certo Luca che urlava il suo nome da una chiamata in sospeso al cellulare. 

 

Le passai un libro tra i tanti per terra e lei lo afferrò tirando dritto. 

 

Volevo dirle che aveva degli enormi cerchi neri intorno agli occhi, però corse subito via, e dopo quel giorno non la vidi più. 

 

Quando ho raccontato la scena al mio psicologo (il fatto che la Luna fosse molto particolare in cielo a quell’ora), mi ha risposto cambiando completamente argomento. 

 

Disse che Micol probabilmente era triste, e i suoi occhi la rendevano un panda perché aveva pianto. 

 

Tentò di spiegarmi qualcosa riguardo alla tristezza: mi raccontò che è un sentimento negativo, e a causa di questo le persone provano tanto dolore. Quando si è tristi tutto intorno risulta incolore, perennemente grigio e pessimistico, perché siamo troppo concentrati sul lato negativo di una cosa per vedere tutti gli altri aspetti positivi. 

 

Molte persone hanno dei deficit come me e soffrono di depressione per colpa di una tristezza costante che li governa da molto tempo: balenò per la mia testa il pensiero che forse fosse meglio essere alessitimica, perché per molta gente questo dolore che porta un evento drammatico, è distruggente, fulminante, arriva all’anima e sembra non uscirne più. Per me la tristezza vuol dire solo la Luna in cielo e gli occhi a panda.  

 

 

Sara era una bambina che incontravo tutti i giorni al parco. Mi piaceva quel posto perché c’era sempre moltissima gente, persone diverse tra di loro; ma soprattutto perché durante la primavera tutti gli alberi che c’erano diventavano verdi più che mai, e i prati erano pieni di margherite, così tanto che a volte non volevo avvicinarmi allo scivolo per non calpestare i fiori e lasciare tutto giallo, verde bianco com’era. 

 

Invece a Sara credo che non importasse niente dei fiori, perché tutte le volte si metteva a fare le ruote sull’erba, sfoggiando i suoi vestiti ricchi di smerli anche dove non batteva il sole. 

Ogni giorno sfoggiava un vestito diverso, un gioco diverso che portava con se’, però sempre la stessa amica. Non ricordo bene di lei, ma credo si chiamasse Giulia. Giulia non indossava gonne rosa paillettate o fiocchettini tra i capelli, e quando Sara si metteva a ballettare sul prato rimaneva seduta a guardarla. 

 

Per qualche strano motivo però erano sempre insieme. 

 

Un giorno mi avvicinai a Giulia per chiederle qualcosa che adesso non ricordo, e nel frattempo si stava avvicinando Sara con un gelato in mano più grande di lei. Non riuscii nemmeno a salutarla che sentii il ghiaccio gelato sulla mia testa; rimasi ferma mentre lei comincio a urlare “COSA STAI DICENDO A GIULIA, BAMBINA? NON TI CONOSCIAMO, VAI VIA. LEI E’ UNA MIA AMICA, NON TUA.” 

 

Mi tolsi il cono dalla testa, mi pulii un po’ con la maglia e tornai da nonna. 

 

Non appena vide che cosa mi era successo si alzò arrabbiata e andò a parlare con la mamma di Sara. 

 

Dopo una conversazione accesa tornò da me dicendomi che la bambina aveva avuto quella reazione in seguito ad un attacco di gelosia, perché Giulia era la sua unica amica e aveva paura che gliela portassero via. Mi spiegò che la gelosia è una grande paura di perdere qualcosa o qualcuno che ci appartiene, però per me non ha mai avuto senso. Niente ci appartiene davvero, siamo solo noi che ci illudiamo che qualcosa o qualcuno possa essere nella nostra vita per sempre. 

 

Quel grande senso di pesantezza che ci portiamo dietro per timore di rimanere soli, senza quella persona che conta tutto per noi, è totalmente inutile, perché è solo una forma di egoismo che ci impedisce di voler condividere ciò che noi reputiamo bello con gli altri. Se pensiamo che qualcosa o qualcuno sia talmente prezioso da doverselo tener stretto, dobbiamo capire che il modo migliore per farlo vivere non è rinchiuderlo in una gabbia, ma lasciarlo libero, e far vedere al mondo la sua bellezza. Io comunque associo la gelosia ai capelli appiccicosi di gelato sotto gli alberi dei giardini.

 

 

 

Mi ricordo di Nicola perché fu il primo ragazzo che mi chiese di uscire.

 

Ero in terza liceo, era un mercoledì e me lo ricordo perché avevo sempre la lezione di tedesco prima di pranzo. 

 

Ero seduta al mio solito tavolo singolo in mensa, mentre mangiavo la cosa più normale che avevano cucinato quel giorno. 

 

Fuori dalle vetrate si vedeva il giardino della scuola, con tutte le piante verdi e vive, il prato tagliato, una panchina occupata da una coppia e la chiesa in lontananza. 

 

Guardandomi intorno notai un ragazzo molto più basso di me, con un cesto di ricci enorme sulla testa che non riusciva a tenere tutte le cose nel vassoio. 

 

Aveva quel bicchiere in bilico che ancora a ripensarci, mi disturba. Tra tutte le persone della sala, proprio lui decise di avvicinarsi al mio tavolo. 

 

Riuscivo solo a pensare “E ora che vuole questo?”. A 5 metri dal mio tavolo, con strada completamente libera perché tutti erano seduti a mangiare, cominciò a rallentare il passo. Una volta arrivato da me, mi fissò per circa dieci secondi, e senza nemmeno dirmi il suo nome (lo lessi sul cartellino che aveva appuntato alla maglietta) pronunciò un velocissimo “Ti va di uscire?”. 

 

Alzai la testa con gli spaghetti arrotolati attorno alla forchetta sul punto di essere mangiati e mi bloccai. Lo fissai per altri dieci secondi; dopo buttai giù quegli spaghetti, presi il vassoio e mi alzai.  

 

Mi sedetti sulla panchina del giardino che prima era occupata dai due piccioncini e continuai il mio pranzo. 

 

Il pomeriggio a casa raccontai a mamma di questo strano tizio che aveva deciso di rubarmi il posto nella mensa in modo molto naturale e deciso. 

 

Quando ripetei le parole di Nicola, gli occhi di mia mamma divennero più grandi del solito. Mi disse che lui voleva uscire con me, come quei due tizi che si stavano infilando la lingua in gola sul mio nuovo posto per il pranzo. 

 

Blaterò altre parole, anche lei cercando di spiegarmi qualche sentimento come la timidezza e l’amore. Disse che quando siamo innamorati è difficile rimanere calmi e decisi di fronte ad una persona che ci piace, e probabilmente Nicola aveva parlato velocissimo per l’imbarazzo. 

 

Le farfalle nello stomaco sono una sensazione unica, che lei ha provato per la prima volta vedendo papà. E’ un qualcosa che ti va dritto alla pancia, e senti un formicolio interno: sono tutte le emozioni che si scontrano tra loro e cercano di trovare pace, un posto stabile in mezzo a tutto quel caos amoroso, ma non ci riescono perché ciò che si prova di fronte alla persona amata è incontrollabile. 

L’unica sensazione allo stomaco che provo io è quando digerisco o quando ho il bruciore. 

 

Forse per me l’amore è la digestione degli spaghetti al pomodoro nel giardino della scuola.