Cervello in Tilt

Il senso della vita

2 Marzo 2018

Il senso della vita

Le parole del Silenzio

di Stefano Michelini

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PROLOGO

Tutto è partito dalla richiesta della professoressa di italiano di scrivere un testo con una parola inventata da loro. A lei è venuta “marbloccarsi" e  “maraversare”. 

Ne  è sbocciato questo dolcissimo, romantico, racconto breve sul tema delle Vite Parallele. 


LE PAROLE DEL SILENZIO

di

Alessia Caterina Puccinelli

 

 

Le luci basse illuminavano la métro di Parigi, e le persone ormai rimaste ad attendere l’arrivo della metropolitana erano poche, dato che l’orologio segnava le 22:44 in punto. 

Si sentì l’arrivo del mezzo, accompagnato dal suo acuto fischio e si sollevò un leggero vento accompagnato da delle cartacce abbandonate a terra. 

Il silenzio pesava, e l’unico rumore era provocato da quelle sette/otto persone che stavano scendendo dalla metropolitana, dirigendosi nelle rispettive case, dopo lunghe giornate di lavoro. 

C’era anche chi non smetteva mai di lavorare, come Émile, che continuava la sua scenetta nonostante poche persone lo guardassero seriamente; posavano lo sguardo su di lui per circa cinque secondi, tiravano ad indovinare cosa stesse imitando in quel momento e poi se ne andavano. 

Chi ormai era abituato alla sua presenza si permetteva di lasciare una mancia nel cappello appoggiato sulla panchina accanto a lui. 

Generalmente quella panchina era vuota, o le persone la utilizzavano come appoggio per allacciarsi le scarpe, ma quella sera, nonostante la Luna fosse già in cielo, sedeva una ragazza con il libro aperto sulle gambe, ed era ormai immersa tra le pagine da circa un’oretta.  

Émile trovava strana quella presenza, ma non disse nulla per due motivi e mezzo: non era per niente disturbato dalla ragazza, era una buona compagnia, ma soprattutto non poteva parlare per non rompere la sua maschera da mimo e perché era nato così, impossibile aver sentito la sua voce. 

Ragazzo intelligentissimo, eccellente a scuola e nel lavoro, ma Dio, o qualsiasi persona ci osservi da lassù, aveva deciso che non poteva vantarsi a parole delle sue brillanti capacità. Muto, in qualsiasi senso.

Agatha era una ragazza molto sveglia, allegra, si trovava a Parigi per inseguire il suo più grande sogno: l’arte. Si era recata nella capitale francese per approfondire la sua tesi di laurea, dato che presto avrebbe dovuto presentarla per conseguire il titolo di studio nell’Accademia delle Scienze e delle Arti nella sua città nativa, Zagabria. 

Sorseggiava un tè accompagnato da un libro sui quadri d’amore più belli dell’ultimo millennio, soffermandosi su ‘Gli Amanti’ di Magritte, esposto al MoMA di New York. 

Si bloccò per un attimo, godendosi il silenzio della métro e il gesticolare di un mimo che si muoveva di fianco a lei. 

Era già qualche giorno che lo teneva d’occhio, dato che frequentava molto quella fermata della metropolitana, e aveva notato un fascino, soprattutto nei suoi occhi di un nero profondo e misterioso. 

Diciamo che non si era seduta casualmente a bere la sua bevanda su quella panchina. Il libro che aveva sulle gambe era diventato una compagnia relativa, dato che con la coda dell’occhio continuava a guardare il mimo. 

Era curiosa di sapere la sua storia, dato che lo vedeva sempre lì muto, ed immerso nel suo lavoro, e si era quasi affezionata a quella presenza. 

Non capiva bene cosa stesse imitando in quel momento, stava camminando lentamente, come se fosse un astronauta approdato sulla Luna… una scena confusa. 

Agatha chiuse il libro di getto, si alzò e si piazzò davanti al ragazzo parlando “Ehi! Non ti stanchi mai?”. egli rispose facendo spallucce, rimanendo nella parte. 

“Sul serio? Non c’è nessuno, possiamo scambiarci due parole.” Il ragazzo sembrò arrossire, ma un arrossamento diverso.
 
Émile sapeva benissimo che non poteva rispondere, anche se avrebbe voluto tanto, e arrossì nervosamente, continuando a controbattere a gesti. 

Dopo un po’ che la ragazza insisteva, finse di esser tirato da un filo e si allontanò velocemente a scatti. Una volta svoltata la strada, salì le scale che lo riportavano tra le vie di Parigi e si incamminò verso casa. 

Non gli era mai capitato che una persona cercasse di conversare con lui, era sempre rimasto il mimo intoccabile della metropolitana. 

Provò quasi colpa per non aver risposto alla ragazza, nonostante sapesse benissimo che per lui fosse impossibile dire qualcosa.

I sensi di colpa, nel tempo, quasi lo divorarono, si sentì stupido per non aver colto l’occasione di creare un rapporto con qualcuno: ormai viveva nella completa solitudine da otto anni, quando aveva lasciato la famiglia che lo trattava come un incapace dato il suo mutismo. 

Ma Émile sapeva di valere qualcosa, e proseguì i suoi studi nella capitale della grande Francia, riuscendo a diventare un avvocato rinomato in tutta la città; persino le grandi aziende si rivolgevano a lui, perché in tutta la sua vita aveva perso solamente una causa. 

Fin da bambino era stato affascinato dall’arte del mimo, perché non erano necessarie le parole, ma i gesti, e nella sua situazione era perfetto: tramite semplici movimenti poteva esprimere parole o situazioni, e riusciva anche a far ridere le persone, obiettivo principale dato che non aveva mai vissuto in piena felicità. 

Portò avanti la sua passione e riuscì ad incastrarla con il lavoro: ne valeva la pena rimanere fino a tardi nella métro di Parigi a coltivare il suo hobby.

Émile si riprese dalla lunga riflessione; frugò nelle tasche e aprì il portone di casa. Si gettò sul divano; provò a ripensare alla scena in metropolitana, ma in un attimo si addormentò.
 
Agatha era rimasta basita dalla reazione del mimo, ma non troppo. Dopotutto persone del genere non sono molto comprensibili, non è comune trovare qualcuno che pratichi questo lavoro. Prese la borsa, il libro e si diresse al suo hotel, per risvegliarsi la mattina dopo.
 
Ad Émile avevano colpito particolarmente le fossette e i capelli rossi e ricci della ragazza della metropolitana, tanto da disegnarli in qualsiasi foglio si ritrovasse davanti. Quella sera, se l’avesse rivista, avrebbe fatto qualcosa, anche solo conoscerne il nome. Non sembrava nemmeno del posto, dato il suo accento poco preciso.

Passato da casa, raccolse le sue cose e si diresse in metropolitana, e lei era lì, con lo sguardo posato su un libro diverso da quello del giorno precedente, ma sempre concentrata e affascinante. A

Appena si accorse della sua presenza, la ragazza si votò e gridò “Oh Salut! Mi scusi per ieri, forse sono stata un po’ troppo aperta… il mio nome è Agatha, e scusi il mio pessimo accento ma sono croata.” 

Gli occhi di Émile si illuminarono al suono della sua voce, e non sapeva cosa fare, quindi le sorrise e fece finta di regalarle un fiore. 

“Sa dirmi il suo nome?” 

Panico.

Non restava altro da fare se non scappare. 

Poi notò che Agatha aveva un lapis tra i capelli, glielo sfilò dolcemente e raccolse una cartaccia da terra, dopodiché scrisse il suo nome.

“Émile, wow! Suona benissimo” e sfoderò un sorriso raggiante, tanto da incantare il ragazzo. Quando vide che teneva un libro su Picasso tra le dita, chiese se poteva prenderlo e cominciò a sfogliarlo.

“Le piace Picasso? E’ uno dei miei preferiti. Se vuole le passo il libro se riesce a leggerlo in cinque giorni, poi devo tornarmene a Zagabria”.

La faccia del mimo divenne triste tutto ad un tratto. 

“Tutto bene? Forse è stata una proposta indecente e scema” 

Émile scosse la testa e mise il libro in borsa sorridendo, e quando vide che lei ricambiò il sorriso sentì una sensazione bellissima e fastidiosa allo stomaco.

Agatha era affascinata dal mimo, nonostante non avesse mai detto veramente qualcosa, e le sembrava che lui ricambiasse l’interesse, data la curiosità nei suoi confronti. 

Propose di prendere un caffè, ma egli rifiutò cercando di far capire che era troppo impegnato e non aveva tempo purtroppo. 

i due continuarono a vedersi per i corridoi della métro, e tutte le volte riuscivano a conoscersi meglio. Lei scoprì che in realtà quello non era il vero lavoro di Émile, ma solo un passatempo notturno, e capì che era un uomo veramente brillante, e rimaneva ammaliata dai suoi corteggiamenti, che nonostante non aprisse bocca, faceva aprire la sua, stupendola ogni giorno.
 
Era perdutamente innamorato, ma Agatha avrebbe dovuto lasciare presto Parigi e non ci sarebbe stata più occasione di approfondire il loro rapporto. 

L’ultimo giorno che si videro non andò nemmeno molto bene. 

Émile era troppo arrabbiato con se stesso, pentito di essersi affezionato alla ragazza perché sapeva benissimo di non poter portare avanti una relazione di nessun tipo. 

Si dimostrò scontroso agli occhi di Agatha lasciandola perplessa e rattristandola. 

Émile Sognava di poter utilizzare quell’indirizzo che ella le aveva lasciato su un post-it, e magari rivederla, e sorseggiare un tè in sua compagnia.
 
Cinque mesi dopo Émile non dormiva. 

Agatha gli aveva rapito tutto ciò che aveva, non il cuore, non l’anima, tutto. Cervello, polmoni, stomaco, le ossa, tutto. 

Teneva ancora quel post-it, come segnalibro del testo su Picasso che alla fine gli aveva regalato. Così prese carta e penna, e buttò giù qualche riga.
 
Cher Agatha,
sono felice di poterti scrivere finalmente, ma soprattutto di avere trovato il coraggio di farlo. In quei giorni a Parigi mi hai conosciuto, per quanto possibile, ma non sai tanto di me in realtà. Non sai quanto mi piaccia guardare i documentari, cucinare, ascoltare la musica jazz, giocare a carte, ballare il tango, dedicarmi al giardinaggio, ma non sai nemmeno quanto mi piacerebbe potertele dire a voce queste parole. Ricordi il primo giorno che ci siamo visti? Stavo imitando un bagnino che non riusciva a… hai presente quando sei nell’acqua alta al mare, ma tocchi e non riesci a camminare perché la massa d’acqua ti blocca? Non credo ci sia una parola che esprima quest’azione… marbloccarsi…mar…  MAR… maraversare? Potrebbe suonare bene. Comunque stavo imitando un bagnino impacciato che cercava di salvare qualcuno, ma tu mi hai interrotto con il tuo bellissimo sorriso con tanto di fossette e mi hai lasciato senza parole. La tua intelligenza, il tuo sorriso e la tua forza sono uniche, e credo di essere rimasto innamorato, non lo so. Ti penso spesso, se non sempre, e per quanto possa essere possibile mi manchi. Tutte queste parole sono piuttosto inutili, dato che se ci vedessimo non potremmo fare tanto dato che…  dato che sono muto. Già, la mia non è timidezza, o pura serietà di un mimo, è un handicap che mi blocca da quando sono nato, e mi dispiace lasciarti così e deluderti, ma avevo bisogno di chiarirmi, e di farti capire che conti qualcosa per me, e che non sono scontroso, sono semplicemente muto.
Niente da aggiungere, non ti obbligo a replicare.
Tuo,

Émile.
 
Sì, Agatha rispose, un po’ nel mistero, ma fece solo piacere ad Émile.

Cher Émile,
sono felice di sentirti. In quei giorni a Parigi mi sono documentata su di te, quando mi “hai detto” di essere un avvocato. Sapevo del tuo mutismo, ma non volevo fartelo pesare, non credo sia un problema così grande.
Ho apprezzato le parole del tuo silenzio.

Tua,
Agatha.