Cervello in Tilt

Il senso della vita

23 Marzo 2018

Il senso della vita

I semafori rossi non sono Dio

di Stefano Michelini

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Quando qualche donna dice che so di buono, che la mia pelle sa di buono, penso che lei senta lo stesso odore che io sentivo della pelle di mio padre, che era davvero speciale. E non lo dico perché era mio padre e voglio dargli qualche merito in più. Quell’odore era davvero buono. Per quanto fossi ancora piccolo, conoscevo tanti odori. La piazza, la strada, le aiuole ne avevano mille e ognuno dava sensazioni, non era solo annusare, era di più. Sinestesie di piazza.

 

Spesso, per non dire sempre, quando papà si alzava presto per andare al lavoro, molto prima della tromba dell’adunata dei militari, sgattaiolavo nel lettone e prendevo il pezzo di sopra del suo pigiama e lo annusavo. Quell’odore mi faceva bene, era come una dipendenza. 

 

Mio padre era un essere anomalo, diverso da tutti gli altri padri, nel bene e nel male, che poi per male intendo solo il suo essere originale. 

 

Lo confrontavo sempre con i papà normali, quelli tranquilli, con le cravatte e con la faccia tonda tipica dei papà babbei dei miei compagni babbei come i loro padri.

 

Mio padre invece aveva la faccia lunga e gli occhi svegli come Varenne.

 

Se c’è una persona di cui non ero succube era papà. Nessuno era succube di mio padre. Lo sapevi già che di ogni cosa poteva essere anche il contrario. Aveva questo potere magico di scartare di lato che ti lasciava senza possibilità di replica, come una finta di Baggio. Ti giravi e lui era già a venti metri di distanza. Per modo di dire; era sempre lì, ma avevi l’impressione che fosse già molto più avanti.

 

 

Mio padre era un uomo gentile e raffinato, nonostante le sue origini contadine e la scarsa cultura accademica. Aveva conseguito la licenza media con le centocinquanta ore che lo Stato concedeva ai propri dipendenti per frequentare corsi scolastici in tarda età. Aveva il senso innato della vita pratica; senza dire una parola in merito, insegnò a noi tre che i semafori rossi non erano un obbligo assoluto e che tutto andava interpretato. Tutti e tre siamo cresciuti, in un modo o nell’altro,  rispettando i semafori rossi quel tanto che basta. Io e mio figlio Alessandro abbiamo ulteriormente esteso il concetto e, per noi, i semafori rossi non esistono proprio. Vita al limite, compromessi zero.

 

Noi discendiamo da una colonia di banditi napoletani migrata a nord nel Settecento. Ancora siamo conosciuti come la gente di Pompei. Non so se questo abbia un significato particolare oppure no. Per me, che ho fatto studi di genetica, ne ha moltissimo, ma non mi azzardo a fare teorie generali, perché se uno si espone con teorie generali deve poi sorbirsi l’inevitabile replica e io non ne ho certo voglia. Ma quando sono stato a Napoli la prima volta, senza sapere che discendevamo da napoletani, mi sono sentito come a casa. Tutte quelle fisionomie atipiche e personalizzate, tutto il caos in strada, tutto questo mi apparteneva in modo viscerale.

 

A Napoli, poi, i semafori rossi non solo non sono Dio, ma non rappresentano veramente niente per nessuno. Sono semplicemente un’illuminazione periodica delle strade, niente più. I napoletani hanno il senso innato dello scorrimento del traffico e gli ingorghi che ci fanno vedere al telegiornale sono una dissacrante montatura. In realtà sono uguali a quelli che si verificano in ogni grande città. Solo che ormai c’è la favola degli ingorghi di Napoli e della spazzatura, e allora via con la tiritera dei telegiornali. Il traffico a Napoli scorre come altrove, e non ci sono nemmeno vigili urbani a dirigerlo. Ogni napoletano sente gli incroci e la vita come un pipistrello. 

 

Papà sentiva la vita come me e Alessandro, lontano un miglio.