Cervello in Tilt

Errori Seriali

24 Febbraio 2018

Errori Seriali

La bambola viva

di Stefano Michelini

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Insider anonima

Mi sento frastornata. Intorno, la confusione di un trasloco. Voci che s’intrecciano, figlie che vanno e vengono, portano scatole, quello appoggialo lì, l'altro sopra, qui che c'è? Questo si può buttare?

 

Sono seduta su una poltrona da dove posso tenere il filo di tutto. I postumi di un intervento al ginocchio destro non mi permettono di stare per troppo tempo in piedi.   

 

Mamma, c'è una scatola piena di vecchie fotografie, te le lascio qui, puoi sceglierle se vuoi e il resto si butta via.

 

Mi ritrovo con scatola appoggiata sulle gambe, sono vecchie foto di famiglia. Ne prendo alcune a caso: mio padre e mia madre sulla Vespa, al mare con le bambine, il nonno allampanato col suo gilet a righe e il sigaro tra le labbra, Melchiorre il gatto certosino  che dorme sulla  mensola della cucina con la coda ciondoloni, io, piccolina, con mio zio Vito nel campo davanti alla casa che abitavamo 50 anni fa. 

 

Mio zio Vito, nella foto ha forse 18 anni, ride e mi tiene per mano. Lo osservo, lo osservo ancora, con attenzione, una faccia da bullo di periferia, occhi scuri e spudorati. Io gli sono accanto: una bambolina esile, una madonnina dipinta, riccioli d'oro che mamma mi fermava sul lato con un fiocco chiaro. 

 

Il mio sguardo si ferma sulle nostre mani intrecciate.

 

Mi gira la testa, una vertigine che mi porta indietro. Non so cosa mi stia accadendo, un vuoto alla bocca dello stomaco, nausea, repulsione, un urlo che non può uscire allo scoperto e che mi rimbomba in tutte le cavità e rimbalza, ancora e ancora, senza possibilità di estinguersi. Un urlo che pianifica i miei respiri con la consapevolezza che sto per sentirmi male.

                                    

Calmati Giulia.

 

I ricordi vanno avanti a ondate piene, fatti che avevo sepolto si ripresentano così nitidi che non posso evitarli.

 

Osservo bene la fotografia, non c'è traccia di disagio sul mio viso. Tre anni: patate fritte il mio alimento principale, paura di perdermi, paura del buio. Ero tutta qui.

Al tempo della foto, mamma era in attesa di mia sorella. La gravidanza era difficile. Mio padre andava a lavorare alle sette e, con i lavori extra, tornava anche a notte fatta. 

 

Mamma mi diceva che se fossi stata bravissima mi avrebbe regalato una splendida bambola viva, tutta per me! Una bambola viva! Non ricordo che cosa frullava nella mia testina, come me la immaginavo questa bambola, però ricordo che facevo partecipare tutti a questa mia grande attesa. Ne parlavo sempre anche a mio zio Vito. Ormai lui veniva tutti i giorni a casa nostra, perché era terminata la scuola e per mia madre era molto di aiuto. Lui si offriva per andare a fare la spesa e per qualsiasi altra commissione e poi mi faceva compagnia, così mamma poteva riposarsi tranquilla. 

 

Io mi divertito con poco. Mia sorella con molto.

 

Poi c’era la mia amica Claudia. Aveva due anni più di me, era molto vivace e sveglia, anche perché la sua era una famiglia numerosa e popolata per lo più da uomini, vecchi e giovani, che si esprimevano senza reticenze anche di fronte ai bambini. Claudia mi raccontava di tante cose che accadevano a casa sua e per me era come ascoltare un libro di fiabe.  

               

Vito giocava spesso con noi. Ci correva dietro e noi si scappava, poi si tornava, poi di nuovo si scappava e poi di nuovo si tornava eccitate.

 

Venne il giorno in cui mia mamma, in tutta fretta, fu portata in ospedale. C'era tanta agitazione. Mamma camminava male e lentamente, con le mani sulla pancia, e a me veniva da piangere. Lei si chinò per baciarmi e disse che, al suo ritorno, mi avrebbe portato la bambola viva da abbracciare e baciare quando volevo.

 

Com'era una bambola viva? Ci potevo anche parlare? Poteva davvero muoversi?  

 

Chiesi allo zio Vito: ma cosa fa una bambola viva? Se non le piace stare con me va via? 

 

No che non va via se tu sei brava. La puoi accarezzare, baciare, vestirla, spogliarla, lavarla, tutto quello che vuoi.

 

Fuori dal ricordo, mi batte così forte il cuore che sento il suo pulsare anche nella punta delle dita. Intorno ho il caos: mi ci vorrei buttare dentro, rialzarmi, aiutare le mie figlie, darmi da fare, non pensare più, non ricordare. Ma sono paralizzata. Ho aperto il mio vaso di Pandora. 

 

Avevo la cognizione del male e del bene? Cosa poteva passare nella mia mente? Provavo disagio? Perché non ho mai detto niente a qualcuno, mai una parola, un accenno? Perché ? È trascorsa un'estate intera e io mai una parola. 

 

Volevo bene a mio zio Vito. Con lui giocavo, mi prendeva sulle spalle, mi faceva volare tenendomi stretta per le braccia, ci rotolavamo nell'erba alta dietro casa. Mi accarezzava, mi baciava. Diceva che ero la sua bambola. Mi piaceva essere la sua bambola. Fuori c’era aria.      

 

Il giorno che mamma e papà andarono in ospedale, Vito chiuse le finestre e poi la porta col chiavaccio. Il sole del primo pomeriggio spingeva calore da fuori. Lui si gettò sul letto grande, disse che era caldo. Ricordo bene la mia magliettina bianca con tre roselline sullo scollo e le mutandine a righe sottili bianche e rosa. Sì, ricordo tutto, i colori, gli indumenti, perfino il suo odore di sudore. Nessun pianto, nessun grido. Ma se avessi pianto? Se avessi urlato? 

Cominciò a farmi il solletico, sotto i piedini, sulla pancia, fra le cosce. Cominciai a ridere, ridevamo tutti e due, rotolandoci sul lenzuolo.

 

Ora ti mangio tutta!

 

Mi mordicchiava tutto il corpo, ancora solletico e piccoli morsi senza farmi male. Poi si stese sulla schiena e mi disse guarda.

 

Guardavo ferma, sentivo le sue mani che mi accarezzavano i capelli.

 

Mi girano ancora intorno le sue parole, le sue istruzioni dolci.

 

Il gioco poi finì. 

 

Un segreto. Ma che ne sapevo io di segreti? Come poteva fidarsi di una bambina così piccola? Avrei potuto tradirlo anche senza volerlo. Eppure Vito ha avuto ragione. Da me non è mai trapelato niente, anche quando ho cominciato a sentire disagio e più avanti vergogna, non ho parlato di tutto questo con nessuno. 

 

Per tutta la mia estate di allora ho respirato il suo fiato sul collo ogni volta che veniva a casa nostra. Ogni volta che c'era un pretesto per stare solo con me. 

 

Allora non potevo odiarti. Oggi sì, con ogni fibra del mio essere, con ogni stella della mia ragione. Tutto in me si ribella e fremo, il ricordo mi sconvolge l'assetto mentale. 

 

Mio marito sta arrivando, si preoccupa per me, che non mi affatichi le ginocchia. Riportata al mio mondo presente, seguo le mie figlie indaffarate, vedo il lavoro che va avanti, vorrei alzarmi, controllare, ma ho la testa pesante, schiacciata nella morsa dei ricordi che non vogliono più stare seppelliti.

 

Mamma tornò a casa e finalmente vidi la mia sorellina: era lei la mia bambola viva, la toccavo, l'accarezzavo, aveva grandi occhi scuri che mi guardavano curiosi, le prendevo le manine e lei me le stringeva forte. Mi chiesero di darle un nome ed io scelsi Margherita, come la signora del negozio di alimentari, lei mi piaceva tanto perché rideva sempre e mi regalava ogni volta un dolcetto o un pezzetto di focaccia. Mio zio Vito in quel periodo si vide meno: c'era sempre gente, parenti, amici, conoscenti, la sua presenza non era più necessaria. Però quando arrivava non ero contenta di vederlo. Non avevo reazioni di fastidio, di paura, semplicemente non ero contenta, non volevo giocare con lui. 

 

Placato tutto quel via vai, incominciò di nuovo a interessarsi a me. Il momento più propizio per stare soli era nel primo pomeriggio: mia mamma andava a riposarsi e le persone che abitavano nei dintorni se ne stavano  a casa in attesa di un sole più clemente per poter lavorare negli orti. 

 

Vieni Giulia. 

 

Girellammo un po' nel campo dietro casa, lui raccoglieva sassi e poi li tirava a colpire qualcosa, non parlava, io seguivo i suoi tiri. Poi si voltò, mi prese per mano ed entrammo dentro alla stanza adibita a ripostiglio. C'erano utensili, legna accatastata, sacchi, un po' di tutto e una scala di legno su un lato, che portava a un piccolo soppalco ingombro di tante cose e piuttosto buio. Mi prese in braccio e arrivammo lì sopra, si sedette sullo scalino più alto, il più nascosto e al buio. Mi fece sedere sulle sue gambe. Parlava e mi baciava i capelli. Di spalle, sentivo forte il suo respiro sul collo. Io non capivo niente. Le sue mani mi tenevano per la vita. La sua voce era diversa, non era come le altre volte e poi avevo paura di cadere giù per le scale. 

 

Mi sono sentita sola. Piangevo piano, avevo paura di quel silenzio e del buio. Sentii il frullio d'ali di un piccione, qualcosa che mi era finalmente familiare. Poi Vito mi abbracciò in silenzio. 

 

Mamma, scusa, potresti venire di là in camera, ho bisogno di sapere come vuoi sistemare la tua roba?

 

Ma che hai mamma, ti senti male? Hai un'aria così strana.

 

Bevo a piccoli sorsi.  

Cerco di ricordare quante volte abbiamo salito quella scala. Non lo so.

 

Un giorno viene a cercarlo lo zio Giovanni, fratello dello zio Vito.  Mia mamma non c'è. Giovanni gira intorno alla casa, non vede nessuno, la porta è aperta. Chiama Vito a voce alta, più volte. Vito ed io siamo sul mezzanino in cima alla scala impegnati nel solito gioco. Mi dice subito di stare zitta, anche se entra Giovanni, devo stare zitta. Mi copre la bocca con la mano. Sentiamo il cigolio della porta che si apre, Giovanni entra, scruta nella penombra, si avvicina alla scala, guarda intorno, poi sentiamo che esce, la porta si chiude dietro di lui. Vito mi prende per mano e usciamo. Poco distante però c'è Giovanni seduto su una pietra, la sigaretta in bocca, si alza, ci viene incontro. 

Dov’eri? È da un po' che ti cerco. 

Mi prende in braccio e mi chiede sottovoce: dove eravate? 

 

Non dico niente.