Cervello in Tilt

Disabilità

13 Novembre 2017

Disabilità

Riflessioni di un padre con figlio autistico

di Stefano Michelini

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EINSTEIN

Praticamente muto fino a nove anni, la sua prima frase fu “La zuppa è troppo calda” pronunciata a tavola insieme ai genitori. I signori Einstein, che lo pensavano ritardato gli chiesero come mai non avesse detto una parola prima. La sua risposta fu “Perché fino ad ora tutto era a posto”.

 

FUTURO PROSSIMO

Ho la certezza, come molti, di prevedere il futuro prossimo. Dati in mano, non è poi così difficile. Infatti, pur con qualche grado di approssimazione, lo prevedo sempre. 

Il futuro anteriore è un’altra cosa. Più complesso nella sua struttura, implica variabili, spesso impossibili da anticipare. 

Nel lungo tempo in avanti, quasi ai limiti di un tempo ulteriore, c’è infatti sempre qualcosa di diverso che varia lo scenario previsto. A seconda della prospettiva e del periodo, qualcosa cambia ineluttabilmente. E non si tratta di dettagli, ma di eventi, che possono rallentare o eliminare interi blocchi di vita di cui ero certo. 

Un esempio banale: ero sicuro di ritirarmi a San Diego intorno a 55 anni. Una città perfetta per me. Media di venti gradi in inverno e ventotto di caldo secco in estate. Lieve brezza. Uccelli a frotte dal becco lunghissimo, che mi riportavano a immagine preistoriche, spiagge strane e inquietanti. Dopo tre anni, le deviazioni esistenziali hanno variato la città e il contesto: la mia previsione di andarmene si è avverata, anche se per motivi completamente diversi dal ritiro silenzioso in California. La motivazione è cambiata per la nascita di un figlio alieno. Crea comprensibili aspettative umane in tutti, ma basta che lui ti guardi, per capire che non appartiene alla nostra specie obsoleta. 

Quindi niente San Diego.

Il mio presente attuale è a Roma. Ci abito dal 27 Febbraio 2017, ho 58 anni.

Prima di dormire, in riepiloghi occasionali, mi accorgo che, al di là delle scelte logistiche, anche la qualità del tempo vissuto è stata diversa dal previsto: sfumature lievi e marcate, hanno sfuocato i confini di ogni giorno trascorso, limando spigoli e resistenze, che hanno fatto della mia mente un luogo più accogliente. Vieni pure Amore, ci sono. Sono pronto.

 

IL TEMPO

Analizzato a posteriori, ho identificato difetti procedurali nella mia scansione troppo precisa del tempo. il tempo scadenzato in giorni, mesi ed anni, che io credevo progresso è invece sempre stato involutivo. Ricordo, periodi di una fretta inutile di arrivare ad una data prestabilita, a volte imposta da altri, a volte forzata da me, come fossi inseguito da un gruppo di dobermann inferociti. Ma dov’era il senso? Negli ormoni, negli incontri, nelle ambizioni saponose come bolle, nel soffio mutevole dell’ispirazione del momento? Non riesco a capire da dove venisse fuori il senso di tanta fretta o di date certe da rispettare. 

Una delle più spiazzanti emancipazioni che un uomo si può trovare tra le mani è la libertà interiore di differire. 

Me ne accorgo solo ora e solo qui, perché non ho tempi da rispettare, se non i minimi per l’organizzazione del sistema autistico che ci ha portato a Roma. L’anarchia coordinata di oggi e del domani, ormai imminente. Di questo si tratta.

Ora, sono esattamente sul mio tempo imminente che mi aspetta, senza fretta e con tutte le sue potenziali sfumature. Averne consapevolezza. Bene così.

 

LA FINE

Il primo pensiero con senso compiuto mi è arrivato in piena notte. E’ stato un pensiero buono, di quelli che rimangono come pilastri. Sempre sul futuro, ma un futuro concreto, con quel sottile margine di astrazione, che ti apre la mente ancora di più. Ore indisturbate in cui rifletto su come sono i miei giorni attuali e come potrebbero essere i miei ultimi giorni. 

Le ore sono finalmente lunghe. Una volta intrapreso bene un pensiero, non ho interruzioni che mi sviano su altro. 

Il mio ora: fasi diverse, prospettive diverse di un pensiero, banalità fortuite, il mio concentrarmi sereno sull’amore filiale. 

Il mio dopo: come sarà?

A prescindere se sarò sempre in questa cella, che mi sono costruito attorno pazientemente, o in un’isola verde con solo frutti tropicali, la fine sarà sempre un cumulo di macerie sopra di me. 

Il peso che mi schiaccerà sarà misurato a discrezione da chi rimane in vita, come se le macerie che mi coprono avessero un peso specifico, definito dagli altri in funzione di come mi hanno vissuto.

Nel mio caso, alcuni penseranno che sarò ricoperto dai petali bianchi dei ciliegi giapponesi nel loro giorno di massima fioritura; una nevicata di petali bianchi alta mezzo metro che copre una capitale. Altri penseranno che sarò coperto di mattoni scheggiati; altri da polvere, altri sdraiato in una strada bagnata, travolto da un uragano, che ormai andava riducendosi a un normale giorno di pioggia.

Il quadro che ciascuno si porterà a casa di me sarà diverso e i giorni del ricordo saranno il ricordo di quelle diverse densità e di quei colori. Questo è il bello della fine. Lasciare colori e densità proprie. E non è detto che la fine sia sempre la morte.

 

EPILOGO

Fino a quarant’anni, è stato il terrore di una morte accidentale, che mi impedisse di esprimere le mie qualità, poche o tante che fossero. Fino a lì ci dovevo arrivare. Per chiudere subito il conto in attivo. 

Rosi, la mia ex moglie, donna saggia, dal sapore del pane caldo e dall'equilibrio fragile, mi diceva, non sei fatto per stare qui: corri, corri via. Sono corso via grazie a lei. Mi garantiva che il massimo livello di felicità personale non era raggiungibile correggendo i propri difetti, ma spingendo forte sui pregi. Corri, corri via. 

Sono corso tre anni negli Stati Uniti. Tre anni esasperati per la ricerca su pezzi di DNA. Tre anni con la paura di morire e non avere fatto niente di significativo, nonostante l’autorizzazione a correre, che sembra facile da conferire, ma che necessita di un cervello superiore per concederla. Non era concepibile tornare a casa, dicendo che ho corso tre anni senza risultati.

Il terrore di una morte prematura e inespressa, mi ha portato al delirio della superstizione, anche se per un solo giorno. Mi resi conto in taxi che era l’ultimo volo del mio mandato, il diciassettesimo di trentaquattro, considerato il ritorno. Su Washington, una classica tempesta estiva. Il Dulles Airport dentro uno sconvolgimento di vento e pioggia. 

Pensai, per la prima volta, al potere magico dei numeri nel governare il mondo. Pensai che ero nato il giorno tredici novembre e che sarei potuto morire per il diciassettesimo volo. Esteticamente perfetto, mi piaceva, ma avevo ancora cose da concludere. Settantacinque gocce di diazepam spensero la mia cabala e mi svegliai completamente, tre giorni dopo che ero tornato a casa. Non ero morto a vuoto. Portavo a casa un cervello potenziato, sintetico, concreto e due articoli rilevanti, su cui ho poi vissuto di rendita, potendo impiegare il mio tempo residuo a imparare ogni giorno di più a sfangarla.

 

LA PACE

A 41 anni arrivò la pace. Con la pubblicazione del mio primo libro autografato, un libro di protesta pura sul sistema universitario e di auspicato amore, inteso come alleanza. Mi sentii perfettamente in linea con tutto il da farsi. Anche il nome della casa editrice mi piaceva: Portofranco. E il mio lo era. La paura di una morte accidentale era sparita per sempre. Tutt’ora, diciotto anni dopo, non esiste più. Ora vedo gli altri, con tenerezza, ostinarsi a guadagnare un banale giorno di vita in più, abbarbicati al mero vivere, senza valutarne la qualità. 

In realtà, c’è poco da essere giudici sull’interpretazione del tempo di vivere degli altri esseri umani: rispetto a me, sono evidentemente ben addestrati, abilitati e rispettosi della sopravvivenza di qualsiasi tipo: dal plaid sereno sulle gambe paralizzate, al rantolo preagonico, al personale di servizio che si occupa della tua igiene intima: per loro è sempre vita. Sono eroi.

Questa è la missione biologica dell’essere uomo: rimanere in vita più a lungo possibile e chi lo adempie è allineato. Tutto il resto è un gioco di ruoli per passare il tempo dalla nascita alla morte. Per me non era così. Io ero sovrapposto sul pensiero di Giorgio Gaber, che mi era rimasto in mente: “L’importante è non invecchiare. Essere vecchi vuol dire non trovare più una parte eccitante e fisica da interpretare... e cadere in quello stupido riposo in cui si aspetta la morte. Non lo abbiamo mica rubato il gusto di vivere. Ci spetta di diritto”. 

Un tempo ero paladino del gusto di vivere, del significato biologico del vivere a oltranza, come tutti. Oggi, nonostante essermi rinchiuso da pareti e sbarre, la mia concezione del tempo è sintonizzata sulle frequenze mie proprie di Tensione Evolutiva, titolo e senso di un testo di Jovanotti. 

Si va avanti solo se andare avanti è crescere in comprensione, anche parziale, di un Amore che non avresti mai intercettato. O lo avresti ridotto ad uno stereotipo. Come quello per Raffaello, che non mi sarei mai immaginato di affrontare così, in un infinito numero di giorni e notti.

 

VITTORIO GASSMAN: INNAMORARSI A 70 ANNI

Nel tempo illogico della fretta, mille paletti educativi mi ostacolavano. Scivolavo facilmente in compromessi sociali, non proprio stupidi, ma pur sempre compromessi tipicamente umani. 

Il problema era che io mi sentivo profondamente diverso dagli altri, non tipicamente umano. Tutto era sempre in bilico nei confronti di opinione con tutti. Ogni interazione con la vita era incerta e fragile. Anche negli aspetti esistenziali in cui mi sentivo più solido, i sentimenti, le sfumature deviavano sempre il corso delle cose da me desiderate, o solo apparentemente desiderate, come innamorarsi. 

Mi piaceva e mi piace ancora innamorarmi di tutto quello che mi faceva e mi fa impazzire. Quella sensazione di vibrazione non mi abbandona mai, senza secondi fini. La vibrazione per se stessa. Parliamo di amore o di interesse esistenziale per forme di vita particolari e non per altre passioni a buon mercato.

Mi capita ancora di vibrare e ancora con la stessa alta frequenza. Sono ancora fresco nel sentire, ma quasi sempre è un vibrare al negativo.

Se una persona per me, molto interessante, cade in comportamenti fuori dalle mie aspettative, vibro come in un innamoramento al rovescio e intuisco un declino immediato. Basta un attimo e il seguito del copione lo conosco a memoria. Sento che qualcosa di irrimediabile è accaduto e mi fa molto male. Male, perché accade raramente di incontrare persone interessanti e il mio abbandonarle consapevole mi arriva subito nel profondo. Per una regola di vita che mi sono dato a circa diciotto anni, non posso stare male più di tre giorni, per qualsiasi motivo. Già lo consideravo un oltraggio all’esistenza. 

Oggi quel tempo concesso al disagio si è ridotto a qualche ora. Qualcosa in me, che non è volontà, riporta la mia situazione interna ad un punto di equilibrio. Non lo sopporto questo tipo di malessere e faccio presto, molto presto a congelarlo. E’ un processo riparatorio istantaneo, ma nonostante la velocità del recupero, è innegabile che fantasmi in giro vaghino dentro di me. 

 

ECTOPLASMI

Anime trasparenti che sono apparse e scomparse nel mio tempo interiore in un attimo. Il languore, non assorbito definitivamente. Era comunque consolatorio sapere che nella massa umana, qualcuno era salvo nello spirito di vivere e profondamente diverso; sapere che qualcuno si muoveva nella vita senza pregiudizi e con libertà imperturbabile di un polpo ad anelli azzurri nell’oceano; sapere dell’esistenza di cellule vive intorno a me. Ma avrei preferito non conoscerle, che conoscerle e vederle sparire. Il concetto di sparizione è poi davvero opinabile. Un coltello entra, uccide, ed esce. Sparisce in un attimo, ma tu sei morto. Così come il contrario, vivi per frazioni di tempo una situazione e ti cambia la vita, come l’incontro con Rita Levi Montalcini. Cinque minuti di presenza e sparizione, che mi hanno rivoluzionato il tempo per molti anni. 

Anche Raffaello l’alieno è sempre assente, ma è sempre presente in me, in tutti i sensi, in tutti i momenti. Quindi cosa significa sparire o non sapere decifrare, se quello che è accaduto ci ha lasciato o ci lascia un segno indelebile?

 

IO SONO

Io sono sabbia. Mi sento sabbia. Voglio essere sabbia calda che scivola tra le dita. 

 

2014

Miriade di fatti sono accaduti nel frattempo, ma che non hanno alterato il mio atteggiamento arreso sul vivere, compreso il mio secondo matrimonio. Sembravo ormai andare dolcemente alla deriva, come un comune mortale, con un matrimonio vissuto serenamente e una vecchiaia avviata. Poi è nato Raffaello Filippo. La nostra ecologia equilibrata di matrimonio e ben consolidata su routine personalizzate, si è rotta a causa dell’autismo di Raffaello. In quel momento, giorno dopo giorno, ho conosciuto davvero mia moglie e ho sviluppato, molto lentamente, un altro amore che aumentava ogni giorno di più. Prima eravamo una coppia in equilibrio standard, dopo siamo diventati un’unica galassia. 

 

LASER

Non ero più ossessionato dal morire nel tempo giusto, tanto mi ero normalizzato: avevo capito che sarei morto come tutti e non come volevo io. Me ne ero fatto una ragione, ma, soprattutto, Il mio tempo interiore era completamente concentrato sulle prime anomalie comportamentali di Raffaello. Una interruzione più inaspettata del ritmo blando intrapreso. Il suo sguardo che passava oltre tutto mi insospettiva.  Non si fermava al primo oggetto o alla prima persona. La bucava come un laser, come di solito un bambino di un anno e due mesi non fa. A questa età e forse anche prima, si parla già di sorriso sociale; un sorriso, fatto a caso alla prima morfologia umana che un infante incontra. Un meccanismo di difesa: “Non vorrai fare del male proprio a me, che ti vedo per la prima volta e che sono così piccolo e ti sorrido”. Raffaello non solo non sorrideva socialmente, ma non era nemmeno triste socialmente. Semplicemente era, senza essere visibile.

Cominciai a registrare piccoli video in vari contesti. Un’altra cosa che mi disorientava era la sua capacità visiva oltre i 180 gradi, che gli consentiva di avere sempre in controllo tutto quello che accadeva intorno. Altra anomalia, la concentrazione assoluta su quello che gli interessava. Niente lo avrebbe distratto.

 

AUTISMO

Il congegno sempre più anomalo di Raffaello era complesso da smontare: movimenti stereotipati, perdita del linguaggio, testate volontarie nel muro, una forza sovrumana, che nelle sue crisi non riuscivo a contenere nemmeno io, un cinghiale di novanta chili. La complessità si riassumeva in due soli capitoli: economia per le cure impossibili da gestire nel tempo e nel modo in cui la volevo gestire io e la completa mancanza di conoscenza scientifica sulla malattia. Solo tentativi di qualche ricercatore pioniere, l’impegno di educatrici esperte e qualche statistica stiracchiata. Questa formula si traduce di solito nell’impossibilità di agire con successo. Chiuso in mano anche in quel momento. 

Alone di una situazione già al limite, dovevo contenere anche lo sfasamento della mia famiglia abituata alla condivisione, per cui la preoccupazione improvvisa di un membro diventava un dramma collettivo ingestibile quanto inutile, come ogni tipo di emotività di fronte ad una complessità. Nonostante tutto, sentivo che era un giorno buono, in cui quello che doveva essere fatto e pensato era stato fatto e pensato bene in relazione alla difficoltà.

 

RAFFAELLO FILIPPO

Raffaello Filippo, detto Gaucho, é nato al momento giusto. Concepito con fecondazione assistita, è stato scelto dalla biologa tra cinque ovuli fecondati. Tre li hanno levati dal congelatore e dissolti lo scorso anno. Alla prima visita che seguiva la mia diagnosi ufficiosa della neuropsichiatra infantile ci fu segnalato con garbo, che tre nomi per un bambino nella fascia più grave dell’autismo erano troppi. Filippo fu scelto come unico nome e dentro di me è sempre stato Raffaello o Gaucho. Raffaello era stato anche il nome di mio padre, altro essere alternativo della mia famiglia.

L’autismo di Raffaello si manifestò con i primi sintomi dopo un anno e sei mesi di sviluppo psicomotorio regolare. Poi iniziò a utilizzare delle bacchette di qualsiasi materiale, come se fosse predestinato a divenire un futuro batterista. Progressivamente iniziò una regressione nel parlare, nell’indicare, nel rispondere, nella volontarietà di non di relazionarsi, nell’assenza del rassicurante sorriso sociale e di tenere lo sguardo. Nella lenta trasformazione in un automa si arrivò alla essenza della malattia.

In famiglia ci fu un contegno emotivo collettivo; in ognuno di noi lo spiazzamento era gestito con dignità, così come si affronta ogni tipo di problema sopra soglia. 

Una malattia grave, in bambini o adulti che siano, apre ad un nuovo mondo ai familiari, le cui coordinate non sono subito accessibili. Questa fase di nuovo orientamento si è sviluppata in un ambiente quasi asettico, interrotto soltanto dalle improvvise e, all’inizio, imprevedibili crisi autolesive, in cui Raffaello prendeva la rincorsa e batteva la testa nel muro o si metteva a quattro zampe e la batteva sul pavimento fino ad averla tutta nera dai lividi. In quei momenti, di alta tensione emotiva, Raffaello si trasformava in Hulk. Con tutta la mia forza non riuscivo a contenerlo. Le associazioni di questi episodi con sue minime frustrazioni percepite, cominciammo a leggerle in anticipo e questo avvenne contemporaneamente all’inizio di un protocollo terapeutico poco sperimentato, da noi scelto su base puramente intuitiva, in quanto se esiste al mondo una malattia di cui non si sa niente è l’autismo. Terapia intensiva di 6 ore, 5 o 6 giorni su sette. Questo lo decisi io, sulla base della mia esperienza che l’intensità e la varietà degli stimoli funziona sempre, anche in un cervello apparentemente bloccato.

 

ANNALISA

Annalisa è una bellissima donna, non più giovane, minimalista nel proporsi, al limite dell’invisibile. Ha codici da decifrare di complessità alternata. Spesso scompare per mesi come contatto. Intelligente, sa come muoversi nella vita dei fantasmi. Anche se oggettivamente bellissima, non sarei mai stato attratto emozionalmente da lei, probabilmente per quel particolare modo di non esserci, che aveva di dissolvenza. Annalisa fu comunque la prima persona e l’unica, a parlarmi di condizione autistica e non di malattia. La condizione si distingueva dalla malattia per un modo interiore di essere diversi, come un personaggio peculiare che vede le cose con una sua congruità a noi non sempre leggibile, con la particolarità di tirare dritto solo verso i propri interessi, ma senza vizi o note di prepotenza gratuita.

La sera in cui me lo disse, la presi come edulcorazione di una grave forma di invalidità. Annalisa era una testimonial, moglie di registi famosi, compagna di un fruttivendolo, il tipo di donna, che alla fine, ha anche cercato una inutile stabilizzazione con un prodotto tipico umano. 

La referente dell’autismo di Raffaello, per me medico e scienziato navigato, doveva avere un altro profilo. Ma le sue parole mi rimasero in testa.

A distanza di tre anni, solo qui a Roma, nel mio Rinascimento, ho capito la consistenza di quella sua precisazione. Questi alieni non sono malati, anche se, rispetto agli altri bambini, sono molto diversi e qualcosa di strutturale nel cervello che non è a posto c’è. Sono fisicamente normali, ma hanno uno sguardo, che più crescono più ti passa da parte a parte, un’intelligenza fuori dal comune e tutta contenuta in loro stessi. Sembra che non gli interessi, anzi non gli interessa proprio esprimerla. La loro vita mentale se la giocano da soli, senza essere introversi, senza essere tristi. Hanno sorrisi improvvisi, che si aprono nella loro espressione sempre concentrata, come se in ogni istante dovessero trovare la soluzione intrinseca di ogni cosa che fanno: da una palla che rotola e del perché rotola, all’essenza di un pulviscolo di polvere che notano sul pavimento e che va rimossa.

 

FUTURO ANTERIORE

Se non capisci questa differenza tra “condizione autistica” e “malattia autismo” si aprono voragini che ti possono divorare il cervello di genitore, che abbraccia il tempo presente, il tempo dopo e il tempo che verrà ancora dopo. Frani sul terreno fangoso delle ipotesi di che cosa sarà di lui. Invece più vai avanti accanto a lui, più capisci che avrà meno problemi degli altri: sembrano fatti per un’altra epoca, probabilmente la prossima, o quella dopo ancora, quando la maggior parte della popolazione sarà funzionalmente autistica. Non hanno sentimenti come li abbiamo noi. Hanno esigenze da soddisfare, che sono quasi sempre fisiologiche semplici (fame, sete, urinare, defecare, dormire); accanto a queste esigenze ci sono quelle informatiche, che sintetizzano il loro mondo, in cui la parola è inutile o sintetica al massimo. 

Questa consapevolezza mi fa stare bene, perché sono sempre stato un essere ipersensibile, perché capivo i pensieri degli altri e, nonostante conoscessi la verità sulle loro intenzioni, facevo esattamente quello che volevano, anche se era un’azione che, a seconda delle circostanze, non mi portava nessun vantaggio o mi recava un danno. Era la gratificazione masochistica del mio DNA. In Alessandro, mio figlio maggiore, questa ambivalenza si era già chiusa a livello generazionale e trasformata in prepotenza, se necessaria. In Raffaello, il distacco dal non essere interessato a ciò che non lo riguardava, aveva raggiunto il massimo grado possibile. Ignorava la sensibilità inutile, che lo rendeva immune dai ripensamenti, ma che lo rendeva capace di abbracciare una bambina che piangeva il primo giorno di asilo, quando la sua mamma è andata via. Ma quell’abbraccio era meccanico, si vedeva bene. Infatti appena ha smesso di piangere non l’ha più considerata. La condizione autistica aveva segnalato il problema “una bimba che piange perché si sente abbandonata” e la soluzione “abbracciarla per farla stare zitta”. La bambina non piangeva più. Ottenuta la soluzione, la missione era terminata. Si passava ad un altro non pensiero.

 

LA PERDITA DELLA FUNZIONE DELLA CODA

Intorno ai 33 anni, nella fase in cui avevo paura di morire prima del tempo, cominciai ad elaborare dentro di me una teoria, che nel futuro non ci sarebbe stato più spazio e poi più necessità dei sentimenti, per la progressiva distruzione delle fonti primarie di vita. Non giudicavo se sarebbe stato un bene o un male, ma sentivo che era così. Nei primati, la coda è andata persa nella sua funzione di appoggio, nel momento in cui la postura eretta si è perfezionata, rendendola un’appendice inutile. Se proiettiamo le modalità di vita di questa epoca, in cui già vediamo che la prepotenza, l’inganno, la violenza, il raggiro sono gli strumenti intellettuali più adoperati per poter assicurarsi più margine di sopravvivenza, tra quattro generazioni chi sopravvivrà, quando le risorse saranno ridotte a zero e ci sarà una lotta infernale per una situazione che forse si chiamerà ancora “vivere”? Chi ha ancora tracce di sentimento sarà il primo ad essere eliminato. Ecco perché, nell’incertezza tra una proiezione sociologica e una razionalizzazione psicologica della condizione autistica di Raffaello, immagino una popolazione formata solo da autistici funzionali, che se ostacolati nel loro desiderio ti fanno fuori in un attimo. Raffaello sarà tra gli ultimi a morire in un duello per quello che gli interessa davvero, come per un bicchiere d’acqua se ha sete.

 

L’ULTIMA ESTATE DI KLINGSOR

Nella mia vita ho avuto giorni molto complessi, che non ne hanno inficiato la bellezza. La complessità è un congegno disturbante, ma che se vuoi, si smonta con pazienza e ossessione. Con la stessa cautela e attenzione con cui ci si accinge a disinnescare una bomba. Se vuoi ridurla, devi averla sempre in testa, qualsiasi cosa tu stia facendo. Poi è solo questione di tempo. Tutto arriva al massimo della semplicità possibile, che non vuol dire risoluzione della complessità, ma averla ricondotta ai minimi termini. A questo punto ti devi fermare. Altrimenti è follia.

Se il giorno è anche cattivo, oltre che complesso, non ci puoi lavorare sopra, perché non ci puoi fare niente. Sono giorni ingestibili. Prendi dei tranquillanti e dormi.

L’ultima estate di giorni buoni, nel calcolo approssimativo del mio futuro prossimo, dovrebbe essere questa passata del 2017. Può essere che sia una di quelle volte che non ho valutato bene i dati a disposizione e ci saranno altri giorni buoni per anni. La sensazione è comunque di macerie ormai imminenti, petali bianchi di ciliegio giapponese, mattoni scheggiati o polvere. Che sia qualsiasi cosa a coprirmi. 

Oggi, comunque, è un altro giorno buono, non offuscato dai presagi informatici del mio cervello. Ho bei pensieri senza contenuto. Cammino sui sampietrini nel breve tratto di strada che devo percorrere, con la testa completamente vuota. L’aria è fresca per essere il 22 di agosto a Roma. 

Ora che sono rientrato a casa, i pensieri cominciano a strutturarsi da soli. Senza inquisizione alcuna, mi chiedo come la complessità non contingente, relativa alla mia vita fino ad oggi, si sia risolta da sola. Senza dover smontare niente, senza cercare soluzioni alternative. Senza la necessità di pazientare e ossessionarsi, pur avendo avuto l’impressione di non avere fatto altro per giorni interi.

Ora, in questo momento di sintesi, la mia vita mi ricorda le distese innevate del Minnesota, nella serie televisiva Fargo. Niente di più liscio e candido. Chilometri di neve livellata senza fine. Io, che in auto scorro accanto a questa semplice situazione atmosferica, che mi derealizza. Mi allineo a quello che sono sempre stato, un derealizzato dal mondo. 

Questa mattina, mi sono tagliato i capelli ancora più corti del solito e il barbiere mi ha rasato a dovere. Ho il viso solcato da qualche ruga e piccole escrescenze della pelle non più certo giovane. 

Mentre mi sogno di camminare a fianco delle praterie innevate del Minnesota, immagino di essere Sam Shepard, vestito in nero come sempre o da vecchio generale in pensione, ancora in divisa. Ho voglia di sentirmi un anziano autorevole, che ha vissuto a pieno almeno cinque vite in più degli umani, attraversando situazioni diverse che hanno lasciato segni nello sguardo tagliente. Chiunque mi veda come Sam Shepard sa che ho già capito tutto. 

Mi piace molto, quando improvvisamente mi identifico in Sam Shepard profondamente. E’ un giorno buono, lo sapevo.

 

L’ETA’ DELL’ORO

Odio le metafore elaborate dalle menti di scrittori di ogni tipo, dai giornalisti a Proust. Odio le metafore nelle omelie dei preti. Odio le metafore dei politici. Odio le metafore di ogni tipo.

Paragonare un tempo particolare all’età dell’oro è l’unica eccezione che accetto. Mi è rimasta appiccicata dentro, dalla lettura di Memorie di Adriano. Nel brano in cui parlava della Grecia, che per assurgere ai livelli di Roma, anche se in termini opposti di stile, avrebbe avuto bisogno di trent’anni di pace dalle lotte interne. Solo così, il potenziale vitale dei greci sarebbe potuto emergere in oro puro di sapienza e costituire il riferimento umano del mondo, quello di oggi compreso. 

Mi sono svegliato per la fame e per un pensiero netto che dal sogno si è fatto strada nel cosciente, sulla strada aperta dalle riflessioni sulla Grecia. Nel sogno l’Impero Romano mi appare immenso nell’insieme dei suoi anni, e, se è decaduto, mi consolo nelle coperte calde. Se è caduto il dominio più incontrastato del mondo, da parte dei barbari, se hanno avuto ragione di una città grezza e bulimica di espansione, posso cadere anche io, in un qualsiasi angolo di strada, senza trionfi comuni e senza drammi particolari. E’ storia. Come un giovane allievo di Fidia, porterei con me immagini inedite come quelle che mi regala il piccolo alieno. Insieme ai riccioli biondi, mi ha portato su un’altra frequenza di osservazione degli eventi. 

Ora, vedo davanti a me soltanto una distesa infinita di spighe di grano con le cariossidi gonfie sotto un sole a picco. Una prosperità augurale, carica di potenza di sesso turgido. 

Ho capito che questa è la mia età dell’oro. Non dovevo aspettare altri trent’anni come i Greci o estinguermi senza questa sensazione di pace assoluta.

Non esiste nella mia cronologia passata, ma soprattutto attuale, un periodo in cui non sia accaduto niente di specifico. Paradossalmente, ogni evento negativo di questi anni, una volta assorbito, mi ha regalato un succedersi di giorni buoni, in cui si dorme il giusto, si mangia poco, si beve uno champagne favoloso, ci si bacia con passione, si riposa da svegli, si lavora senza frenesia su più lavori, si ama bene, ci si muove quasi niente, si ascolta suonare una donna senza trucco per ore, con uno strumento ad arco che lei ha scelto per quella sera, si trova una soluzione per tutto, senza sovrapporre i problemi. Niente di eccezionale, se non la mia età dell’oro, che mi definisce un uomo sostanzialmente libero e, nello stesso tempo, sempre al limite delle responsabilità critiche da gestire. 

 

 

L’AMORE IMPERVERSA LENTO ORA

L’amore imperversa lento ora. Non sento il trascinamento vorticoso degli anni passati. Sento un fluire di sangue caldo, che non si estingue. Sfiora le basi delle spighe senza nemmeno piegarle. Le circonda e procede rosso verso la spiga attigua e la circonda. Tutto si espande così. Spiga dopo spiga. Era qui che volevo arrivare, ma non credevo che esistesse un fenomeno di tale potenza e di tale quiete. 

I colori del grano giallo sporco e del sangue, misto a pulviscoli superficiali di terra, disegnano sotto le varie inclinazioni del sole, solchi apparenti, che visti dall’alto, potrebbero sembrare ferite. Se nella mia vita precedente, avessi voluto fare un regalo alla persona che amavo di più, avrei donato questo stato d’animo, con un atto di estrema generosità e gratitudine.

Ora, contemplo una generosità molto diversa da quella che ho sempre avuto di carattere, proprio perché allora la riconoscevo e veniva riconosciuta dagli altri come “generosità”. Regalare questa mia condizione a Raffaello ora, mentre dorme, sarebbe semplicemente estendere fuori dal mio corpo un normale battito cardiaco. Nessuna traccia di volontà di dono. Solo vita normale che passa. 

Mi fermo ai bordi di questa distesa di grano intrisa di sangue alla base e gonfia di fecondità nella sommità dei chicchi. Mi fermo al limite. Fare un passo in più verso questo miracolo sarebbe un oltraggio estetico e un pericolo di infrangere quello che potrebbe essere un sogno post-mortem. Madre mia santa, come si può voltare le spalle a tutto questa calma. Ho deciso: resto qui e aspetto. La magnificenza di questi mesi a Roma, saranno sempre in me e rappresenteranno, in condizione autistica, la mia massima espressione di amore di contatto e di amore virtuale nel mio passaggio esistenziale.

 

FELICITA’ GRATUITA

Sono arrivato alla conclusione, abbastanza ovvia, che sui grandi capitoli della vita non ci sono né definizioni, né verità assolute. Come la prevedibilità del futuro prossimo, pur con qualche sfasatura sul reale, anche la felicità è una costruzione mentale. Sono due processi antitetici: uno, basato su una serie di ragionamenti consequenziali abbastanza ravvicinati, l’altro su alchimie ignote, che fanno della felicità una droga purissima da sballo variabile. Grazie a dosi minime di felicità, sopporti anni interi di neutralità o disgrazie. Attimi di benessere, surrogati di vita, così ben strutturati, da farti credere che sarà sempre così. Dosi minime che ti illudono che il tempo di vivere sembri essere fatto di molti anni a venire di serenità, per i quali vale la pena di essersi persi in un metro quadrato di mondo, per scelta o per errore. 

La ricerca attiva della felicità è come la fretta di un uomo verso un’illusione, rincorso dallo stesso gruppo di dobermann inferociti, cani che odiano chi insegue cose irraggiungibili. Inutile correre dietro un’illusione. Prima o poi cadrai senza fiato e li sentirai sopra di te per sbranarti. Non proverai nemmeno dolore.

Intorno alla necessità biologica della sopravvivenza della specie, e in particolare di me o di te, visto che è di noi che si parla, mio amato Raffaello, c’è bisogno di una spugnatura di acqua fresca, prevista lungo il percorso di una maratona molto più lunga di 42 chilometri. 

 

AQUANIENE

Ecco, ora sono qui, nella caffetteria della piscina Aquaniene di Roma, ascolto Roxanne e scrivo. Impossibile, visto le circostanze attuali della mia vita, stare meglio di così. Questa è oro colato. Due alieni vicini, distanti due piani: uno, mio figlio, giù in acqua a cercare una logica tra la sua mente e il suo corpo; l’altro alieno, in caffetteria che ascolta Roxanne e che scrive della sua semplice e inaudita leggerezza in un contesto da malessere fisso, tipicamente umano. 

In realtà, gli stessi addetti all’organizzazione della maratona, con la pettorina ufficiale gialla, mi stanno ancora bagnando il collo, illudendomi che sarà così per tutta la vita. Ma lo fanno ogni tanto, e io non so quando lo rifaranno, nemmeno dopo 58 anni di esperienza di corsa. Sento l’acqua fresca che uno sconosciuto mi ha strizzato due volte lungo la schiena. Niente è stato cercato affannosamente per questi attimi di respiro diverso. E’ successo. Un tocco d’angelo. Poi, fine. Poi, riprendi a correre. E corri per chilometri. 

Se non ti è stata sufficiente la lezione della percezione temporanea della felicità e della sua assoluta casualità, avverti il tempo di corsa che rimane, un tempo faticosissimo e infinito, solo perché un gruppo di neuroni si ostina a ricercare di riprodurre la formula di quell’attimo, che in realtà non ha nessuna formula. E’ un surrogato magico che ti consente, tuo malgrado, di andare avanti e che ti fa continuare a correre forte fino a quando, di colpo, da un’andatura liscia, passi alla sensazione dei tuoi piedi incollati all’asfalto bollente. Dalla leggerezza della solitudine, passi alle insormontabili difficoltà di trovarti in mezzo alla strada, con interlocutori vuoti come poche cose possano essere vuote nella vita. 

La felicità, un doping alieno, ma così fuori dalla nostra portata mentale, che ci fa accettare la vecchiaia, anelare la prigione, le chemio, le frasi dei medici che dicono e non dicono, l’orrore mediatico per un attentato terroristico che uccide trenta turisti e che contemporaneamente ci fa ignorare un essere piccolo, nero e con la pancia gonfia di vermi che muore ogni secondo per la fame. E’ meraviglioso. Non ci sono altri termini per definire questo artificio. 

 

POST SCRIPTUM

Nelle mie vite multiple, avverto ora la più forte vibrazione di sempre, nella certezza di avere riconosciuto in Raffaello l’alieno, un’oasi senza essere in un deserto. In questo momento è tutta un’altra storia: la mia scelta è di stare dentro la vita e reggerla di peso, qualsiasi cosa succeda. Per questo, ho bisogno di un’ulteriore resistenza elastica al disagio interiore e di una realtà stabile intorno a me. 

La coesione dei miei neuroni si è strutturata nel mio tempo di vivere, sempre al limite delle possibilità. Ora sono diventato un monolito virtuale, alto un metro e ottanta per settantasei chilogrammi di roccia liscia. Prima era novantanove chilogrammi, poi si è concentrata a settantasei. Più coese sono le mie molecole, più resistenza oppongo al disagio. Gli eventi avversi del mio bambino sfiorano la mia superficie nera e la ghiacciano. Su questo niente da fare. Ma non mi intaccano dentro. Nemmeno il non sapere che cosa ne sarà di lui. Raffaello l’alieno sarà quello che sono stati tutti i bimbi più o meno strani. Per noi, sarà gestibile nella misura in cui avremo compreso la vita in tutte le sue variabili; nella capacità di trasformare un amore viscerale verso un figlio problematico, nel saper ragionare lucidamente su cosa fare e su quando farlo. 

La realtà stabile intorno a me, in questo tempo di vivere, ha una sostanza ben diversa dagli ectoplasmi che mi sono passati accanto per un solo attimo: la sostanza stabile è la trasformazione psicologica di mia moglie; è la sua presenza calda che avverto quando dorme profondamente; è il momento in cui catalizzo la sensazione di saperla forte, alleata di se stessa e di Raffaello l’alieno. Mi sento unito a lei dallo stesso sangue in circolazione extra-corporea.